Le parole erodono la profondità della rappresentazione, destabilizzano il confine tra simulacro e oggetto, confondendo i limiti tra ciò che potrebbe essere vero o falso. Il Re Amleto è ancora vivo oppure già morto, probabilmente è folle, in ogni caso, si tratta di definizioni arbitrarie e tempi verbali, architetture sintattiche dalle prospettive incerte. Nel Preamleto di Michele Santeramo, con la regia di Veronica Cruciani e con Massimo Foschi, Manuela Mandracchia, Michele Sinisi, Gianni D’Addario, Matteo Sintucci – si scava nell’archeologia dell’originale shakespeariano non per scoprirne il sistema ipertestuale, un altro Ur-Hamlet, ma per portare alla luce un residuo narrativo, attraverso il dispositivo analitico dell’inganno.
La tragedia shakespeariana, che si trova a proprio agio nei labirintici ambulacri di Castel Sant’Elmo, nel silenzio del tufo, per questa rilettura è stata circoscritta al giorno del compleanno del Re Amleto e tra le mura anguste di un bunker, monumento funebre del potere. In questa camera segreta, allestita nella Sala Cannoni del Castello, le pareti di cemento grezzo si incrociano fuori sesto, creando punti di vista deformati e nascondendo due ingressi, uno molto piccolo e l’altro molto grande. Un’unica finestra stretta lascia filtrare una geometria di luce e alcuni rumori di un esterno distante, elementi coordinati in modo evocativo da Gianni Staropoli e Paolo Coletta. Il Re – un Foschi perfettamente misurato negli scatti d’ira ed empatico negli sguardi di intesa – è seduto su un’austera poltrona di pelle consumata, da solo, come una parola ascoltata da nessuno.
Gertrude, Claudio e Polonio arrivano per gli auguri ma l’imponente idolo non ricorda la sua data di nascita. Ostinato a rimanere chiuso al mondo, cronicamente affetto da perdita di memoria, osserva e ascolta con lo sguardo folle e l’attenzione divertita, come lo spettatore del dramma che, in effetti, mantiene i caratteri dell’originale. Gertrude si muove sensuale e isterica tra gli uomini ma, rivelando la stanchezza mentale di “essere un pezzo appeso al niente” che è diventato il Re, vuole affrancarsi dal dovere di essere qualcosa. Claudio è imbelle, combattuto ma solo superficialmente tra un vago senso di rispetto per la figura fraterna e la passione per il potere e per la donna. Polonio è la macchietta, il grottesco che interviene per allentare la tensione, balbetta non sapendo chi adulare, si muove come e quando gli dicono di farlo. Amleto entra ed esce da una botola nascosta nel pavimento, con furore e malinconia giovanili. Abbraccia il padre ma questi sembra non riconoscerlo pur ricambiando alcuni movimenti e accenni che tentano di aprire un contatto metatestuale, come dialoghi a parte sull’epilogo della storia. Il principe non capisce le amnesie del padre, vorrebbe preservarlo dagli intrighi di palazzo, rimanendo legato a una trama lontana ma ineluttabile, tutt’altro che artefice di se stesso.
I personaggi sono legati a un meccanismo del racconto perfettamente bilanciato tra tragico e comico, confusi nell’immaginare possibili sviluppi di una trama, si perdono volendo conoscere, come maschere consumate ma inconsapevoli di un dramma già scritto e performato migliaia di volte. Allora, il Re deve muovere, ponendo le sue frasi in una zona di slittamento del linguaggio affinché, una volta accettata la tragica fine, il senso possa sdoppiarsi liberamente. Nel pastiche linguistico tra il potere e il poter essere, nell’ambiguità grafica tra il sostantivo e il verbo modale, la memoria è il peso di cui liberarsi. Le parole, senza il ricordo della storia, tentano la profondità della conoscenza. Paradossalmente umano che l’unico ad agire contro gli esiti alienanti del potere della narrazione, il solo ad avere piena coscienza dell’epilogo esiziale del dramma, sia proprio l’ipostasi del comando. Il Re senza ricordi non vuole esercitare l’autorità, perché l’amnesia, presunta o reale non è importante basta che sia cesura tra il proprio poter essere e l’altro da sé, è l’unica via d’uscita dal labirinto della trama.
Così, Preamleto diventa romanzo di formazione. Il principe non ha fatto altro che seguire gli insegnamenti del re, percorso naturale di crescita condiviso tra padre e figlio. Un ruolo genitoriale che il vecchio Re sottolinea con insistenza comica, reiterando ammonimenti e frasi apodittiche, “ti ho insegnato che il silenzio e il comando sono alleati?”, “cos’altro ti ho insegnato?”. L’avvelenamento è finzione che avvia la successione degli eventi, lutto simulato che condannerà a morte realmente teatrale tutti i personaggi. Il Re, fintamente morto, si annuncia nell’aspetto di fantasma ma il ferreo testo originale suona distorto, in quel “se mai mi hai amato, non vendicare la mia morte. La vendetta non laverà le colpe”. Un’esortazione all’inazione, ultimo insegnamento del padre, prima dell’abbandono. Il Re può esercitare il suo ultimo comando, iniziare a smettere di essere qualcosa ed evadere dalla storia, non uscendo dalla porta del bunker, non chiudendosi nel limbo dell’attesa degli eventi ma abbandonando semplicemente il palco. Sulla scena rimangono i personaggi, la tragedia è iniziata.